Il rischio è intrinseco, se non ci fosse, il rapporto con la montagna sarebbe come quello verso un bel tramonto o un albero secolare, o nella visione delle onde infrangersi nel mare. Sarebbe bello si, ma sterile, ovvero senza vita. L’alpinismo è ‘vivere’ la montagna quindi con le gioie e con i dolori. Vivere in essa e con essa significa accettare il pericolo poiché la montagna è pericolosa. L’alpinismo vive anche funzione della conoscenza della montagna e quindi del pericolo: vincerlo, sopraffarlo e dominarlo ne diviene forse l’anima che tiene vivo l’alpinismo e quindi l’amore per la montagna.
2. Se si, chi non rischia (perché arrampica o scia nei propri conosciuti limiti ed evita i pericoli obiettivi) non fa alpinismo?
Va in montagna allo stesso modo di uno che va al mare, o di uno che fa un giro in bici, o di uno che fa una fantastica crociera. Fa qualcosa che piace, che diverte, che appassiona, ma che non va oltre, non mette mai in dubbio certezze e limiti. E’ un po’ come avere una moglie (o marito o compagno/a) di cui sai già tutto e conosci a priori tutti i suoi comportamenti, vizi e virtù: improvvisamente il collante che ti tiene unito a lei/lui scema o comunque diminuisce. Manca l’incognita che è il sale della vita e di un rapporto. L’elemento sorpresa, il meravigliarsi, l’arrendersi, lo sfidare, il rinunciare divengono l’anima dell’alpinismo e, forse la bellezza e l’unicità di esso. L’alpinismo senza incertezze e senza pericoli, a mio avviso, è monco: manca il fuoco della passione, quello degli amori forti e indelebili.
3. E, sempre se si, chi rischia di più fa più alpinismo?
Non essenzialmente. Il rischio è per chi lo ‘sfida’ è sempre calcolato, o almeno lo è così per la maggior parte dei casi. Ci si allena, si studia e si conosce il proprio nemico (in questo caso il rischio) che è intrinseco nella montagna, proprio per vincerlo e dominarlo. E questa vittoria che rinsalda l’amore per la montagna, rendendo il rapporto ancora più forte. Dominare e/o tenere sotto controllo il rischio e dunque parte intrinseca dell’alpinismo e dell’essere alpinisti. In questo modo si ama sempre di più la montagna. Certamente portare all’esasperazione questo concetto produce di per se un aumento di pericoli da affrontare e un aumento di quei pericoli a cui nessun allenamento e/o conoscenza può eliminare. Quindi il ‘non essenzialmente’ espresso all’inizio della risposta è legato a ‘quanto’ noi vogliamo spingerci consci dei rischi che questo comporta. Ma le due cose non sono direttamente proporzionali.
4. Negli incidenti in montagna, come in quelli in città o sul mare, esiste la fatalità cioè l'imprevedibile?
Sicuramente. I pericoli oggettivi son molti e tutti potenzialmente mortali. La preparazione, la conoscenza e l’allenamento sono il modo unico che abbiamo per minimizzarli ma non azzerarli. La fatalità è quello zero virgola qualcosa che rende rischioso e potenzialmente mortale ogni attività umana. Figuriamoci in montagna dove il fattore fatalità è qualcosa in più di zero virgola.